Giancarlo Giudice: il mostro di Torino che odiava le donne 


Nel cuore della Torino operaia degli anni ’80, tra le strade periferiche e i quartieri dimenticati, si aggirava un uomo solitario, tormentato e letale. Il suo nome era Giancarlo Giudice, e la sua storia è una delle più inquietanti della cronaca nera italiana. Tra il 1983 e il 1986, Giudice uccise almeno nove donne, tutte prostitute, in una spirale di odio e violenza che lo rese uno dei serial killer più efferati del Paese. 

Nato a Torino l’11 marzo 1952, Giudice crebbe in un ambiente familiare disfunzionale: 
Il padre, reduce della campagna di Russia, era alcolista e anaffettivo, operaio alla FIAT.
La madre, malata di cuore, morì quando Giancarlo aveva solo 13 anni. Lui lo scoprì solo dopo il funerale, mentre era rinchiuso in collegio.
Tentò il suicidio ingerendo pillole, ma fu salvato in extremis. Nessun supporto psicologico seguì l’evento.

Dopo la morte della madre, il padre si risposò e si trasferì in Calabria, abbandonando il figlio a sé stesso. Giudice rimase solo, senza affetti, e iniziò a fare uso di cocaina e LSD, cambiando spesso lavoro: barman, manovale, camionista.
Le vittime di Giudice erano tutte donne, spesso prostitute, scelte per la loro vulnerabilità. I delitti erano brutali, ma non seguivano uno schema fisso, rendendo difficile collegarli: 

27 dicembre 1983 – Torino  
  Francesca Pecoraro, 40 anni, uccisa e bruciata in una Bianchina rubata.
1 gennaio 1984 – Settimo Torinese  
  Annunziata Pafundo, 48 anni, strangolata e abbandonata nuda lungo la Stura.
26 marzo 1984 – Torino  
  Lidia Geraci, 24 anni, aggredita ma risparmiata dopo aver detto di avere tre figli.
Maggio 1984 – Torino  
  Clelia Mollo, il suo cadavere ritrovato scatena la caccia al killer.

Altre vittime seguirono, uccise con modalità diverse: strangolamento, sgozzamento, colpi d’arma da fuoco. Alcuni corpi furono bruciati, altri gettati in acqua o abbandonati in strada.
Giudice non mostrò mai rimorso. Durante gli interrogatori disse:  

“Ho ammazzato nove donne, ma erano tutte battone ed erano vecchie e brutte. Le odiavo”.

Il suo odio sembrava radicato nel rancore verso la matrigna, figura femminile che disprezzava profondamente. I delitti erano una forma di vendetta simbolica, una sublimazione del suo trauma infantile.
Nel 1986, durante un controllo di routine a Santhià, la polizia trovò due pistole e un asciugamano intriso di sangue nella sua auto. Giudice confessò subito:  

“Va bene, quello che cercate sono io”.

Fu arrestato, portato al carcere delle Molinette e poi trasferito all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia, dove confessò tutti i suoi delitti. 


Giudice fu riconosciuto colpevole di nove omicidi, due tentati omicidi e diverse aggressioni. La sua personalità disturbata divise gli esperti di psichiatria forense: alcuni lo ritenevano lucido, altri affetto da disturbi profondi. La giustizia lo condannò a una lunga detenzione in struttura psichiatrica.
La storia di Giancarlo Giudice è quella di un uomo cresciuto nel vuoto affettivo, nel rancore e nella solitudine. Un killer che non cercava il brivido, ma la vendetta. Un caso che ancora oggi interroga criminologi e psichiatri: quanto può il dolore trasformarsi in odio? E quanto può l’odio diventare morte?
Domande interessanti a cui forse non si potranno mai dare risposte concrete.
La cosa certa è che un dolore così forte provocato dalla perdita di una persona cara, una serie di abusi, umiliazioni, isolamento ecc.possono trasformare una persona qualunque in un assassino.

Fatemi sapere la vostra lasciando un commento.....elementare.

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